LA PERIFERIA ROMANA E I SUOI MONUMENTI
(1983)

…il borgo diventa borgata, caratteristica di Roma
e vendetta imperitura di Remo, e accoglie il primo approdo
al “caos” verso la Porta e la Città…

Quanti si sono avvicinati anche una sola volta al centro storico di Roma, attraversando faticosamente la sua labirintica periferia, già conoscono la morfologia sfatta di questa città, la dimensione abnorme delle zone residenziali che la circondano, il dedalo del suburbio, la nebulosa delle borgate più o meno abusive. Ma quanti, giungendo in aereo a Fiumicino, hanno per caso sorvolato, anche di sfuggita, la città eterna, hanno sì intravisto nel cuore dei quartieri rinascimentali e barocchi le preziose inclusioni dei suoi monumenti storici ma non hanno neppure potuto fare a meno di sorvolare per interi minuti forse la più sterminata, magmatica distesa di case che, almeno in Europa, sia dato di contemplare.

Migliaia di ettari, chilometri e chilometri quadrati di territorio edificato, urbanizzato senza regole e fuori da qualsiasi piano urbanistico, centinaia di chilometri di strade disegnate alla rinfusa, nessuna traccia di ordine e di gerarchia che non siano quelli dettati dalla lottizzazione selvaggia e senza scrupoli che ha dominato incontrastata negli ultimi quarant’anni.

Ma all’interno di questo ciclopico pastone edilizio, di questo magma spropositato fatto di casette di tufo e di “palazzine” pretenziose, alimentato da mezzo secolo di malgoverno, di insipienza, di arroganza e di ipocrita connivenza amministrativa (le vicende legislative di questi giorni non possono che far rabbrividire appena le si confronti con la vastità del “fenomeno Roma”), ecco qua e là emergere i segni, i frammenti sparpagliati di un’idea, di più e contrastanti “idee di città” che architetti e urbanisti hanno, nonostante tutto, cercato di lasciare, dal dopoguerra a oggi, nel corpo vivo di una città che, come abbiamo visto, è andata sviluppandosi per lo più senza guida.

Ed ecco stagliarsi, sia per la loro mole ma soprattutto per il loro “disegno”, interi blocchi di edifici, “quartieri” veri e propri, “stecche”, “ciambelle”, qualche moncone di crescent, qualche fantasma di square, insieme a raggiere sconclusionate, a ciclopici “segni urbani” passati per disgrazia e senza tante mediazioni dalla carta al cemento, frattaglie di town-design d’annata, cucinate in tutte quelle salse che la cosiddetta “cultura” degli specialisti di volta in volta consigliava. E tale è stata spesso l’audace insipienza degli addetti ai lavori da lasciarci in più di un caso perplessi se non, addirittura, farci talvolta rimpiangere la tragica, disperata, violenta “spontaneità” della borgata senza firme d’autore. Si potrebbe andare avanti ancora per molto in questo senso e, sorvolando ancora per qualche istante la città, tornano alla memoria le matrici iconografiche di quelle oscene “citazioni”, pagine patinate di riviste di vent’anni fa, sfogliate e mai lette, qualche progetto giapponese, tante immagini dall’Inghilterra, un po’ di banlieue parigina, tante esercitazioni scolastiche, qualche laurea “storica”, ecc.

Non è certo questa la sede per alimentare ulteriormente una polemica vecchia ormai di qualche anno, ma almeno ci si consenta di osservare ancora quanto e come una politica di piano priva del necessario consenso di massa, o comunque di una qualsiasi intelligenza politica, unita a una professione del progetto priva anch’essa di un’adeguata, autentica “cultura” e organizzata tardivamente secondo tempi, modi e strumenti che già altrove si erano dimostrati inadeguati, abbiano prodotto gli effetti di cui oggi milioni di persone subiscono le conseguenze vivendo, abitando lo spazio di una “città” che tale rimane solo nei toponimi cartografici.

Roma, infatti, al di fuori del suo storicissimo centro, della sua fascia ottocentesca e di alcuni brandelli (già, peraltro, maledetti) di zone intensive ad altissima densità, frutto della febbre ricostruttivo-speculativa degli anni Cinquanta, non è più, anzi non è mai stata e probabilmente non sarà mai, una città. Non lo sono le cosiddette borgate, lo sono ancora meno i numerosi quartieri di edilizia pubblica o sovvenzionata costruiti in questi ultimi anni.

Questa Roma non è città (non parliamo poi di Metropoli), o meglio lo è come può esserlo oggi un qualsiasi pezzo di periferia in una qualsiasi megalopoli mediterranea, come lo possono essere Napoli o Palermo, Atene o Beirut.

Né valgono a restituire il senso complessivo di un’appartenenza dei suoi spazi alla storicità del luogo, alle sue sedimentazioni, alle sue stratificazioni storiche anche gli esempi migliori (non parliamo poi dei peggiori) di cui in qualche modo il servizio fotografico che segue intende essere una sintetica rassegna.

Giorgio Muratori
(da Abitare, n°225, giugno 1984)